Nel panorama della moda internazionale, una delle figure più controverse e criticate è quella di John Galliano, un vero e proprio artista nel campo della “couture”.
Galliano divenne, all’alba del nuovo millennio, il direttore artistico di una delle maison di moda più prestigiose al mondo, Dior, alla direzione della quale si erano avvicendati nomi del calibro di Yves Saint Laurent e Gianfranco Ferrè, dopo la scomparsa del fondatore, Monsieur Christian Dior.
Ovviamente la storia della maison e il suo connubio fra arte e moda, che avevano contribuito alla nascita di un nuovo ideale di bellezza femminile, che aveva caratterizzato tutta la seconda metà del secolo scorso, erano dei capisaldi da rispettare e forse potevano essere dei retaggi “ingombranti” che avrebbero potuto rischiare di far cadere le nuove collezioni in una sorta di ripescaggio e modifica di vecchi modelli, riadattati alle nuove esigenze.
John Galliano, invece, riuscì a carpire la vera essenza della maison, la teatralità delle creazioni ed ebbe la possibilità di dare una “allure” totalmente nuova alle donne del terzo millennio.
La collezione che sancì veramente la sua entrata nel mondo Dior, in maniera plateale, costellata di critiche, esaltazioni e divergenti considerazioni da parte delle maggiori testate giornalistiche di settore e non e dalle redattrici delle principali riviste di moda, fu la collezione primavera-estate del 2000.
“L’arte è superficie e simbolo. Chi va oltre la superficie lo fa a proprio rischio e pericolo”. Con queste parole tratte dalla prefazione de “Il ritratto di Dorian Grey” di Oscar Wilde si dette inizio al defilé, evidenziando come le nuove creazioni che sarebbero di lì a poco andate in passerella, sarebbero uscite totalmente fuori dai canoni della haute couture che fino ad allora si erano visti, causando un vero e proprio scandalo.
Gli abiti non erano più fini a sé stessi, non coprivano più solamente i corpi delle modelle, enfatizzando o meno le loro forme, ma diventavano delle vere e proprie opere d’arte, che, spesso, erano dei “pugni allo stomaco” della sensibilità del pubblico, perché, come in questo caso, avevano come forma di ispirazione anche dei temi sociali o politici.
Gli abiti, realizzati dalle mani delle sarte e delle ricamatrici più sapienti della maison, sembravano un accumulo di stracci, abbinati senza alcun senso, caratterizzati da lembi di stoffa penzolanti, maglie bucate e sfilate, pezzi di spago che cadevano dalle cinture, lacerti di corsetti cuciti insieme in maniera casuale, con cuciture al rovescio e stecche che fuoriuscivano.
Sembrava l’apoteosi della moda da pattumiera, della moda del riciclo e tutto ciò destò lo sdegno di molti addetti del settore, che, non comprendendo la grandezza anche pubblicitaria oltre che artistica di questa trovata di Galliano, dissero che lo stile Dior ormai era finito.
Differentemente da quanto si poteva credere, tutti i materiali e la stessa fattura erano di altissimo livello. Sete e tessuti preziosi, ricami eseguiti a mano e dipinti su stoffa, stampe innovative e sperimentazioni di ogni tipo erano le vere caratteristiche che accomunavano queste nuove creazioni, che, nella loro teatralità e altissima fattura, erano un valido esempio della trasformazione ed evoluzione dello stile Dior che stava entrando nel nuovo millennio.
Varie furono le recensioni delle giornaliste di moda a riguardo, come quella di Janie Samet, che credendo erroneamente che il tema della collezione fosse la follia, pubblicò un articolo, “Dior c’est fou”, in cui affermava: “Tempesta su Dior/ Galliano ha presentato ieri una collezione cataclisma che ha suscitato la battaglia di Ernani. Presi a prestito i suoi temi dalla cloche de bois e dall’universo psichiatrico, ha diviso la stampa e le clienti, agitate, ma affascinate dall’incredibile spettacolo e veniva offerto loro […]. Alcuni urlavano allo scandalo, altri trovavano lo psicodramma notevole, orchestrato come un quadro fra Egon Schiele e i dadaisti”.
Questa collezione scatenò una vera bufera contro la maison e il suo direttore artistico, vedendo intervenire anche illustri psichiatri e sociologi.
In realtà il tema della nuova collezione erano i “clochard”, anche se Galliano chiarì che non era sua intenzione fare una collezione sociologica o un documentario sulla povertà, dichiarando: “Sono cresciuto con i film di Charlie Chaplin. Correndo la mattina, sono stato impressionato dall’allure dei gentlemen dei canali di scolo dei sous-abri. Chiamavo tutto questo il ‘wet world’. Li ho immaginati come una serie di aristocratici della strada. Ammiro questa creatività che nasce dalla necessità”.
Anche queste dichiarazioni destarono lo sdegno di alcuni esponenti di associazioni per i servizi sociali francesi, ma, nonostante tutto, questa sua trovata stilistica segnò un vero punto di svolta nella storia dell’alta moda, evidenziando come quest’ultima è il frutto del connubio indissolubile fra l’arte e la società, e fra il genio e la “follia” dell’artista-stilista che ne è l’autore.
Eleonora Fiori